lunedì 28 giugno 2010

Thanks Mike

Un anno fa se ne andava Michael Jackson. Grazie ala sua musica è cresciuta una generazione di artisti che oggi può realizzare un pezzo, una cover, del genere. Brividi ampiamente autorizzati: Aloe Black -Stones Throw - 2010. After Mike.

giovedì 24 giugno 2010

Quale futuro per la nostra identità?

Riporto uno dei più belli e riflessivi articoli che mi sia capitato di leggere sull'argomento informazione/identità/web 2.0 negli ultimi anni. Dentro ci troverete molti spunti di riflessione e non sarebbe male dibatterne proprio in questo spazio, così virtuale, così reale per certi versi, così in grado di fermare per un momento il flusso di informazioni continue che ci pervengono da ogni lato pur facendo parte di questo flusso, del suo scrosciare. L'articolo è stato scritto da Giorgio Fontana ed è apparso su "il primo amore" on-line.

Un io in frantumi

David Hume, trecento anni fa, proponeva di ridurre l'io a un fascio di sensazioni. Non c'è un'unità di fondo, l'anima è un concetto superfluo, tutto ciò che resta è quanto percepito. Un'immagine che sembra particolarmente azzeccata per descrivere la giornata di un giornalista, di uno studente e anche di un impiegato dei nostri giorni: praticamente di chiunque. Mentre scrivo quest'articolo, faccio refresh sulla pagina di Facebook e sul mio account di posta elettronica ogni due minuti. Mi fermo, mi rendo conto di essere al limite della dipendenza, o forse di averlo già superato. Ma chi non lo fa? In un articolo uscito su "il manifesto" il 18 giugno scorso, Marco Mancassola analizza con cura diversi aspetti della questione. In particolare si sofferma sulla CPA — la Continuous Partial Attention di cui parla Linda Stone, ex manager di Apple. Sappiamo tutti di cosa si tratta: saltare da una finestra all'altra, da un flash informativo all'altro, senza posa e senza mai approfondire realmente quanto leggiamo. Qualunque multitasker avrà provato la sottile ebbrezza di vedere un messaggio di posta in arrivo mentre fa alt+tab alla velocità della luce, passando dal sito di un quotidiano a un video di Youtube. Insomma: la concentrazione dedicata non solo alla lettura ma anche alla scrittura e in genere a qualunque tipo di fruizione del reale è pericolosamente in calo, in un mondo in cui essere si avvicina sempre di più a essere connessi — e, di più, a essere frantumati. Ma qual è lo sfondo di tutto questo? Dove siamo finiti?
Persi nell'infosfera Il filosofo Luciano Floridi — professore a Oxford e massimo esperto di filosofia dell'informazione — ha coniato un termine perfetto per indicare dove siamo finiti: infosfera. La realtà, a suo avviso, sarebbe definibile innanzitutto in termini di dati ancora prima che di enti, o forme di vita, o qualunque altro concetto. L'infosfera include la biosfera e il mondo materiale: il bit diventa l'atomo del terzo millennio. Il processo è stato rapido e non indolore per le generazioni a cavallo di questa rivoluzione che è insieme tecnologica e filosofica. Floridi è pacatamente ottimista, pur sottolineando i rischi del caso: con il tempo l'uomo si troverà sempre più a suo agio nell'infosfera, e sarà in grado di manipolare nel modo migliore la quantità esorbitante di dati cui è sottoposto. Ma al momento l'ottimismo non sembra molto giustificato. E questo non solo per quanto riguarda la rete, ma anche per il modo in cui la rete sta contaminando — in tutte le sue forme — la realtà materiale.
Un'ontologia del frammento Sì perché la frammentazione dell'infosfera non è soltanto una questione materiale o psicologica, sebbene questi siano risvolti molto importanti. È anche una questione filosofica: l'ontologia della rete è un'ontologia profondamente frammentaria, e il suo precipitato è la nostra vita di ogni giorno, la cara vecchia realtà cui eravamo abituati. La società dell'infosfera è fondata sull'idea che vi sia qualcosa da ricevere — che senza una sollecitazione esterna di qualunque tipo, dall'e-mail alla friend request di Facebook ai feed dei nostri blog preferiti, non vi sia attività e dunque non vi sia realtà. L'attesa di un messaggio in arrivo è molto di più che uno stato mentale. È come se la nostra struttura cognitiva, il nostro io, stesse andando alla deriva in un mondo che la rispecchia in pieno: sono punto di continuo da minuscoli spilli, e va bene così. In questo panorama, credo che la ricetta della disconnessione forzata sia quasi un'utopia. Certo, ci si può mettere a dieta dalla rete o persino isolarsi in un luogo dove il caos informazionale non ci raggiunga. Ma non è questo il punto. Il punto è che il mondo batterà i pugni contro la porta sempre di più, fino a impedire anche autentiche forme di solitudine o raccoglimento. Uno degli scenari possibili della rete futura, secondo Floridi, è quello di un "web 6.0" dove il confine tra online e offline, tra carbonio e silicio, è stato definitivamente eroso. Fantascienza? Non è detto. E non è nemmeno detto che questo futuro sia così remoto.
Il canto delle sirene
Ma per quanto riguarda il presente, l'incapacità di approfondire e gestire le informazioni rimane la cifra di questa società. Siamo immersi in un mondo che ha cambiato volto molto più rapidamente di quanto abbia potuto comprendere. E il problema ulteriore è che per comprendere ci vuole tempo e fatica, e un uso corretto dell'informazione: mentre la rivoluzione sembra scardinare anche questi assi. Gli elementi del reale sono molto più attivi che in passato. Non ci aggiriamo più in un cosmo fatto di oggetti muti cui dare un senso: il pop-up è una forma dell'essere, e tutto richiede attenzione, tutto canta come una sirena che brama il nostro tempo. Persino lo schermo non è un ricettacolo o uno spazio neutro. Le sirene sono ovunque. E i rischi della loro musica sono molti. Ne cito soltanto due. Il primo è quello di perdere un'autentica capacità dialogica e di argomentazione. Quanto tempo sono disposto a concedere allo sviluppo di un confronto serio? Non è molto più semplice limitarsi a twitterare uno slogan e leggere di sfuggita i commenti? Questo non significa che online non vi siano contenuti di qualità: tutt'altro. Semplicemente, condividono lo spazio con una miriade di informazioni estranee — mentre quando leggo un libro, leggo un libro. Punto. Non è una questione di profumo della carta o di validità del supporto, quanto proprio del silenzio semantico che crea un oggetto come il libro: non ci sono disturbanti. Nessun pop-up. A questo si lega l'altro timore: saremo ancora in grado di comprendere certe forme di bellezza? Un'umanità abituata a frammentare sempre di più la propria attenzione — e di converso, la propria idea di realtà — sarà ancora capace di dedicare tempo e fatica a Proust, agli ultimi lavori di Coltrane, ai dettagli di Kandinskij? O ridurrà tutto alla pagina della madeleine, al tema diA Love Supreme e a un'accozzaglia di colori? Imparare a gestire l'infosfera significa anche questo: non perdere la nostra estetica. E uso il termine nel senso più ampio: non perdere la nostra capacità di percepire attivamente, di usare i sensi, di rapportarci con il mondo — di qualunque mondo si tratti.
Io penso
All'inizio di questo pezzo ho citato Hume. Bene, Kant tracciò una via per evitare la frantumazione dell'intelletto propugnata dal filosofo scozzese: non è vero che l'io è solo un fascio di sensazioni, non è vero che non c'è un'autorità centrale in grado di sintetizzare ed elaborare compiutamente i dati. L'io penso è la risposta energica a questa visione. Nonostante l'enorme quantità di sollecitazioni cui siamo sottoposti, siamo primariamente noi. C'è una funzione logica che ripete io, io, ioio penso. Ed è a questa identità che dobbiamo riferirci per ritrovare la via. Perché al di là dei tecnicismi, credo che Kant avesse in mente anche un ideale etico. L'unità del suo io era profondamente morale: un'anima spezzettata e plurale è incapace di riconoscersi e di distinguere cos'è giusto fare: ma anche cos'è bello, cos'è importante, cos'è umano. Mentre finisco di scrivere, le sirene cantano di continuo. Posso sentirle. Per alcuni è impossibile tapparsi le orecchie. Per altri, è ancora necessario fare uno sforzo: se non altro per imparare a difendersi.

lunedì 21 giugno 2010

Stati uniti, arizona e nuovo (?) razzismo

Segnalo di seguito una vicenda molto importante che sta sfuggendo un po' dai radar dei giornali e blog nostrani e che è un segnale di un nuovo razzismo che sta nascendo in USA nonostante la presidenza di Obama.
Juan Varela era un immigrato messicano in Arizona addirittura di terza generazione. Aveva 44 anni, era nato negli Stati Uniti come suo padre e viveva nelle vicinanze di Phoenix nell’Arizona che a fine aprile ha approvato le leggi discriminatorie contro gli immigrati che hanno causato il ripudio di una parte importante della comunità internazionale. Era stato suo nonno, al tempo del Plan Bracero, a passare verso Nord la frontiera artificiale di quello che un tempo era tutto Messico. Lo ha assassinato Thomas Kelly, un suo vicino, dopo averlo più volte “invitato” (ci sono almeno sei testimonianze diverse di espressioni razziste di Kelly verso Varela) a tornarsene in Messico. L’omicidio è avvenuto il 6 maggio, appena pochi giorni dopo l’approvazione delle leggi discriminatorie, ma solo dopo lunghe tergiversazioni legali per far passare il delitto come una lite causata dall’alcool, solo il 9 giugno l’aggravante dell’odio razziale è stata rubricata come aggravante.
L’omicidio razzista di Varela contribuisce a creare una sensazione di fastidio e in qualche caso di ripudio verso gli Stati Uniti che sta aumentando negli ultimi mesi nel paese. Complice la porosità della frontiera binazionale e la tragedia del Trattato di Libero Commercio del 1994, che ha costretto ad abbandonare il paese almeno una dozzina di milioni di persone, quasi tutti i messicani hanno oramai parenti e amici dall’altra parte della frontiera. Durante molti anni, perfino durante la presidenza di George Bush figlio e nonostante il muro della vergogna che segna la frontiera fittizia tra i due paesi, hanno continuato a guardare agli Stati Uniti con simpatia e desiderio in maniera sensibilmente maggiore rispetto al resto del Continente.

All’arrivo di Barack Obama tale simpatia si è estesa ancora ma ora, dopo oltre un anno di attesa di una legge che migliori le condizioni dei migranti, il credito appare finito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state proprio le leggi razziali dell’Arizona che, lungi dal dare una risposta ai migranti, li criminalizzano. Dal prossimo 28 luglio chiunque è sospetto di non essere in regola potrà essere detenuto arbitrariamente fino a sei mesi e multato pesantemente prima di essere espulso. È una legge voluta per poter ancor di più conculcare, in un momento di crisi economica, i diritti dei lavoratori migranti impossibilitati così sotto la minaccia dell’arresto e della deportazione a resistere a qualunque abuso dei datori di lavoro.

Nonostante Obama abbia condannato con parole molto dure la legge dell’Arizona “è una legge irresponsabile che contraddice i principi basilari della giustizia statunitense” questa ha fatto esplodere anche verso il presidente la valvola del risentimento rilevata dai sondaggi internazionali PEW. In Messico la quota di abitanti che aveva una opinione favorevole degli Stati Uniti era nel 2000 del 68% per scendere gradualmente dopo l’11 settembre fino al 47% dell’ultimo periodo di governo Bush e risalire al 69% al momento dell’entrata in carica di Obama. Ancora poche settimane prime dell’approvazione della legge discriminatoria in Arizona l’approvazione si manteneva al 62% per passare repentinamente al 44% attuale. Adesso il caso Varela, seguito con attenzione a Sud del Rio Bravo, contribuisce ad aggravare il solco tra i due paesi.

domenica 20 giugno 2010

Josè Saramago - tributo

"Il problema principale di questo modello sociale sta nel fatto che il potere economico coincida con il potere politico.

L’unico antidoto per invertire il cattivo funzionamento della democrazia è costruire una società critica che non si limiti ad accettare le cose per quello che sembrano ma non sono.

Una società che si faccia domande e dica di no ogni volta che è giusto dire no.

Perciò è urgente tornare alla filosofia e alla riflessione".

José Saramago, 1922-2010

venerdì 11 giugno 2010

Flying Lotus - cosmogramma

Da quando sono rientrato da New York sto sentendo davvero tanta buona musica e con rinnovata curiosità per le sperimentazioni e per i tentativi di andare oltre al monotono che impera un po' ovunque: nella vita, nella musica, nel cinema, nel paese. Per questo voglio segnalare un disco che è più di un disco, un'evasione dalla monotonia. Vi presento Cosmogramma, l'ultimo lavoro di Flying Lotus, l'anti-monotonia.

C’è poco da fare, a volte essere figli d’arte aiuta, ma qui non c’entra il paraculismo di italiana pratica e memoria. Si parla di vera arte, di ispirazione e di interpretazione della realtà musicale, forse globale, attraverso altre categorie. Forse senza toccarle del tutto le categorie. E’ un pensiero che sovviene naturale all’ascolto di Cosmogramma, ultimo lavoro di Steven Ellison, alias Flying Lotus, alias il nipote dotato di Alice e John Coltrane. L’ultimo della pista in fatto di pedigree…

Tre gli album prodotti dal 2006 ad oggi: 1983, Los Angelese e appunto, Cosmogramma. 3 steps evolutivi non solo personali ma di genere probabilmente. 3 balzi in avanti costanti partendo dal retaggio dell’immortale James Ynacey “J-Dilla” e da quello di casa Coltrane per arrivare ad un approccio totalmente nuovo nei confronti di quell’hiphop strumentale che sembra ormai la declinazione più genuina dell’estro creativo di chi ancora oggi intende cimentarsi con i 4 quarti senza risultare monotono e scontato. “Los Angeles” aveva tracciato il segno, ma a scavare il solco tra “tutto quello che si è sentito del genere hiphop elettronico strumentale prima di Flying Lotus” e “quello che si è sentito dopo” è proprio questo nuovo album, Cosmogramma, dove si uniscono Jazz, boom bap quantizzato, afro-beat viscerale di madlibiana interpretazione, elettronica (c’è anche lo zampino di Dorian Concept e di Tom Yorke), accenni di dub-step e trip hop, in dosi mai così amalgamate tra di loro. Ci sono echi di Coltrane appunto, riverberi “dilliani” e beat eclettici vicini a Janeiro Jarel, ma in definitiva tutto è reinventato totalmente ed ad un tale livello di perfezione che il genere nascente dalla mente e dalle vibrazioni di Ellison rappresenta per davvero qualcosa di nuovo, anche se di non drastico dato che Lotus ci ha accompagnati nel suo percorso evolutivo fin dall’esordio in warp con “1983″. Siamo certamente davanti ad una nuova cosmologia di suoni, ed il titolo dell’album non è casuale.

Possono esserci dischi più facili, più immediati e più facili da restare impressi nella memoria rispetto a Cosmogramma, ma ce ne saranno pochi, in questo 2010, in grado di far porre all’ascoltatore la stessa attenzione che richiede qualcosa di nuovo, qualcosa in grado di partire dalle radici jazzistiche della musica nera per stravolgerne e re-interpretarne i canoni stessi. Flying Lotus è la nuova “New Thing”.

Voto: 10