lunedì 24 gennaio 2011

Tunisia, 14 gennaio 2011

Il 15 gennaio per puro caso mi sono trovato a leggere sul posto di lavoro un report riguardante una nuova fabbrica con la quale l’azienda per cui lavoro intraprenderà una collaborazione in questo 2011. Trattasi di un produttore di forti radici ed origini italiane che da tempo ha trasferito la sua sede in un paese che, come recitava il report “è stabile, ha un governo fortemente orientato al business, è di religione mussulmana e permette il fluire di capitali esteri”. Questo paese è la Tunisia.

Mettendo per un attimo da parte l’elemento fortuito e grottesco rappresentato dal fatto di aver letto quelle parole nero su bianco e per pura casualità il giorno dopo le rivolte tunisine che la storia daterà 14 gennaio 2011, riscattando in parte quel 09/11/2001di cui il mondo arabo non va certo fiero, ciò che in quel momento mi ha fatto riflettere è stato il pressappochismo con cui quelle parole erano state scritte (da un americano, il 7 gennaio). 


La Tunisia in effetti era fino a 15 giorni fa, per tutti, un paese lontano, noto più per la sua vicinanza alla Sicilia (si nel report c’era anche questo) e ad altre mete di villeggiatura estiva, ma anche un paese stabile, uno dei pochi con tale nomea all’interno dei paesi arabi. Ed è su quel “stabile” che vorrei soffermarmi perché stabile non significa né giusto né tranquillo, né fermo. Significa, nella nostra strana semantica, invisibile. 
Ciò che non conosciamo è stabile. La situazione del Kosovo è stabile. La situazione in Taiwan o in Vietnam è stabile. La situazione in Somalia, tra un genocidio e l’altro è stabile. Nel Kenya regna la stabilità. 



La stabilità, e la Tunisia lo dimostra, si fonda su una vita politica inconsistente e sulla concentrazione del potere nelle mani di uno solo o di pochi. 
Con gli alleati giusti, magari occidentali ed in grado di far fluire capitali nelle proprie terre e nelle mani giuste, questa sensazione apparente si può creare e comunicare all’esterno.
 Celando sfruttamenti, condizioni di povertà al limite, repressione violenta o silente, manipolazione dell’informazione. E ciò che è successo in questi giorni in Tunisia è forse la rappresentazione più forte ed ora evidente, di questo gioco perverso di percezione indotta.

Ma la rivoluzione, quella vera, violenta, visibile, venuta dal basso, senza bisogno di leader, di mediatori, di politici, quella del popolo, quella delle migliaia di persone che hanno capito quanto una massa unita possa fare massa critica, quella fatta dai cittadini e pianificata sul web, quella di chi ha voglia di scendere in piazza senza niente da perdere, quella RIVOLUZIONE, mette a nudo tutto questo. Mette in ginocchio un governo considerato stabile, mette paura a decine di governanti limitrofi (Gheddaffi il primo), porta agli occhi di tutti quelli che vogliono vedere qualcosa di più di semplici disordini e guerriglia da telegiornale. Mostra a tutti che ci si può alzare e provare a chiedere qualcosa di diverso per se stessi e per i propri figli.

Quello che i tunisini hanno fatto è stato scacciare la paura, rialzare la testa dopo anni di oppressione stabile e silenziosa; con una forza talmente dirompente da lasciare a bocca aperta i potenti di tutto il mondo (quante dichiarazioni su questo argomento avete sentito per bocca di chi conta, e non solo in Italia?), perchè se è successo in Tunisia, può succedere ovunque.

Svegliamoci, dormienti.

3 commenti:

  1. Credo che questo moto di protesta nato da una grande consapevolezza di quello che una massa può ottenere.

    La situazione però è diversa da quella che si respira nel nostro Paese, anche se,alle volte, sembra di ritrovar un alto numero di somiglianze e assonanze con quanto espresso da questa rivolta.

    Dobbiamo far sentire che ci siamo, è l'unico modo per restare presenti in un tempo senza certezze.

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  2. Posso inoltre aggiungere a riguardo del tuo articolo che alcuni giorni fa, durante un programma radiofonico (CATERPILLAR - Radio2 ), un imprenditore italiano che possiede una fabbrica delocalizzata a Tunisi, faceva noto che i suoi operai guadagnavano 200 euro al mese, ed i giubbotti da lui prodotti venivano venduti in Europa con un mark-up elevato, dicendo che tale salario è accettato come tale, e che il ceto sociale al quale è indirizzata questa offerta di lavoro è conscia del proprio guadagno e non si lamenta di ciò anzi ringrazia e spera che si continui a investire nel paese per creare maggior occupazione

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  3. E' un argomento in realtà molto delicato quello legato ai salari. Accontentarsi di pochi dollari per tentare di sopravvivere è ben diverso da avere un lavoro dignitoso e con prospettive che non comprendano lo sfruttamento a lungo termine per contribuire alla ricchezza di altri. Ed è diverso anche il poter scegliere del proprio destino o accontentarsi di quello deciso da altri. E questo vale purtroppo per tutti i paesi in via di sviluppo sulle cui spalle l'occidente prospera.

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