domenica 23 dicembre 2012

Best album 2012 – compiled by Luke


Anche il 2012 ci ha regalato diversi dischi interessanti e di indubbio valore oggettivo (per quanto questa possa essere una chiave di lettura valida per una classifica o un giudizio in generale). Tanta bass-music, qualche ottimo disco hiphop (finalmente) e qualche chicca sperimentale, meno rock indipendente (nonostante il valido Nocturn Quiet dei Mars Volta). Volendo come di consueto stilare una personalissima classifica “best of the year” ho però dovuto escludere alcuni dischi importanti come Cancer 4 Cure di El-P o alcune chicche quali il poetico disco dei producer tedeschi Sekuoia & Rain Dog o ancora l’EP del terzetto S/S/S di casa Anticon o il groovoso Awe Natural delle Thee Satisfation. Ho cercato però di inserire in questo best 15een gli album non solo più belli secondo il mio gusto personale, ma anche quelli con più personalità, quelli che oggettivamente (quanto più possibile) sono riusciti a portare spunti nuovi nel genere che rappresentano.



1. Flying Lotus – Untill the quite comes
2. Gang Colours – The keychain collection
3. Union – Analogtronics
4. John Talabot – Fin
5. JJ DOOM – Key to the kuffs
6. Lorn – Ask the dust
7. Shlohmo – Vacation
8. Burial – Kindred
9. Bonobo – Black Sands Remixed
10.  Kendrick Lamar – Good kid m.a.a.d. city
11. Mala – Mala in Cuba
12. Hot Chip – In our heads
13. Nicolas Jaar – Space is only noise
14. Godblesscomputers – The last swan
15. Lapalux – When you are gone EP

Note/Curiosità:

- di Union si è parlato veramente poco rispetto al valore assoluto di un disco che raccoglie lo spettro completo della musica black in tutte le sue sfacettature. Il pezzo con Guilty Simpson solo per come entra il rapper in modo soft dopo oltre 1 minuto e mezzo di traccia vale da solo il terzo posto in classifica. Nuovo approccio a produzione ed arrangiamento rap.

- è il secondo anno consecutivo che al 2° posto classifico un disco della Brownswood Records, etichetta dell’inglese Gilles Peterson che dopo il seminale Ghostpoet ha scoperto questo ragazzo a nome Gang Colours che ha preso a mio parere il testimone di James Blake nel “genere” post-dubstep. Sempre grazie a Peterson, possiamo oggi ascoltare Mala in Cuba che dà al genere bass un motivo di esplorazione etnica fin’ora scarsamente interpretato.

- Kendrick Lamar è un rapper di Compton che pare aver deciso che si può raccontare il quartiere gangsta per eccellenza (da qui sono usciti i dischi più tamarri e violenti della storia dell’hiphop…a partire dagli NWA) con un approccio “leggermente” più profondo alle liriche di quanto fatto fin’ora. Il tutto con un gusto per produzioni e metriche davvero nuovo. E soprattutto con un’estetica completamente rinnovata.

- di Shlohmo, producer ventenne americano, non si sente davvero mai parlare. Ma è grazie al suo suono ovattato e acquoso che il post dubstep ha assunto un nuovo significato e legato indussolubilmente dub e hiphop. Vedasi anche i dischi di Shigeto, Salva, Jaar, Submerse, Sekuoia, tutti in qualche modo legati al modo di comporre di Shlohmo. Ci sarebbe poi un certo Robot Koch

- The Last Swan di Godblesscomputers è l’unico disco italiano in classifica, che però di italiano non ha nulla se non il “gusto” di fondo. Un disco molto intenso e sentito che unisce “wood, metal and microchips”, strumenti analogici tribali e suoni elettronici in una miscela a suo modo unica, senza forzature ne scopiazzature dai maestri Berlinesi. E non lo dico perchè si tratta di un grande amico, qui c’è qualcosa di speciale. In uscita per Equinox anche il suo nuovo lavoro Freedom is ok.

- Talabot non ha bisogno di presentazioni: forse solo Rustie e Onra nell’ambiente della musica elettronica sono riusciti a fare in parte quello che ha fatto lui con Fin: reinterpretare la musica elettronica anni ’80, ricontestualizzarla e darle senso nel 2012. Un’impresa non da poco e totalmente inedita.

- infine un’ultima nota dedicata all’hiphop, genere al quale sono da sempre legato e che lentamente stava uscendo dalle mie classifiche e dagli ascolti, se non per qualche incursione targata DOOM o Kanye West. Quest’anno complici i producer Union, Jneiro Jarel, e l’eccellente Kendrick Lamar, ben 3 dischi della classifica possono essere definiti Hiphop. Mentre Flying Lotus che domina la classifica è a tutti gli effetti una personalità proveniente dall’ambiente. Segno che il genere inizia a muoversi ed allontanarsi dal pantano in cui si è cacciato negli anni zero. Non posso che gioirne.

E’ tutto anche per il 2012. Se qualcosa vi è sfuggito potrete beccarlo nei 3 mixtape recentemente prodotti da noi Groovenauti, dentro ci troverete diversi pezzi tratti anche da questi mangnifici 15.
Buoni ascolti!
Luke

lunedì 4 giugno 2012

Terremoti ipertrofici

Da giorni il terremoto che ha colpito la penisola è quantomai esplicativo: metafora dell'interno che, come in un libro di fantascienza (come insegna Ballard), diventa esterno. Un sistema nervoso, caotico che deve palesarsi. L'interesse morboso per ogni aspetto della tragedia, sommato alle ultra-reazioni sociali della popolazione italiana che dopo le scosse se non durante è più intenta a scrivere sui social network di aver sentito la scossa piuttosto che a mettersi in sicurezza, mette in luce chiaramente come il bisogno di condividere fine a se stesso, di protagonismo forzato anche all'interno della propria stessa condizione di disagio, sia ormai mezzo e fine allo stesso tempo. Un ipertrofismo informativo relegato a se stesso, generato da noi stessi prima dei media, destinato forse all'implosione senza via d'uscita.

E nelle ore di attesa tra una scossa e l'altra, come in un moderno telegiornale sciacallo, si respira quasi eccitazione. Eccitazione per l'attesa di poter tornare ancora ad essere protagonisti, a dare per primi la notizia, a sentisi parte di una comunità virtuale fintamente solidale con se stessa, ma nei fatti, nella vita reale, totalmente inesistente. "Il terremoto si è sentito anche qui", "troppo impegnato a scappare per scrivere in tempo reale ma eccomi 1 minuto esatto dopo", "si balla", "anche a Milano si continua a ballare". Alcuni commenti classici su Twitter a zero secondi dalle scosse.

Tragedia, violenza, eccitazione, accostamenti solo apparentemente in contraddizione soprattutto oggi, in questo preciso contesto storico di finta, estremizzata socialità.
Il terremoto si prende tutto, così come una qualsiasi altra tragedia su cui poter speculare, scrivere, raccontare, primeggiare. Verrebbe da dire "protagonistare" se esistesse come termine. Potremmo inventarlo ormai no?

E poi c'è un altro aspetto: la tensione verso il ritorno alla normalità. A quella situazione tale da poter ignorare la presenza degli elementi naturali, delle forze che però non è che siano contro di noi, ma che esistono prima di noi, che di noi se ne infischiano.
La loro normalità è questa. Siamo noi a percepirla in maniera diversa.


Ho paura del terremoto. Ma mi spaventa di più ciò che sto notando nelle reazioni delle persone.


sabato 12 maggio 2012

Occhi di Astronauti: fuori ora “La città verrà distrutta domani”



Dopo oltre due anni di lavoro esce “La città verrà distrutta domani”, il primo intenso disco di “Occhi di Astronauti”, duo composto dal rapper Polly (già “Lato Oscuro della Costa” e “Delitto Perfetto”) e dal produttore Max Prod (anima musicale dei “Groovenauti”). 
Due personalità forti, esploratrici di linguaggi vocali e musicali complessi e stratificati, capaci di fondere poetica rap e paesaggi sonori elettronici in un disco di 15 pezzi che esplora le varie forme del rap nella zona grigia tra elettronica e bass-music.
A qualche anno di distanza dalle entusiastiche recensioni di album come “Doublethinkers”, “Beauty Industries”, “Amore morte rivoluzione” e “OverKill”, La città verrà distrutta domani si propone come un nuovo pianeta nel micro-universo del rap elettronico sperimentale in Italia.

Tra sci-fi ed analisi politica, tra echi dub e beat caustici sull’astronave orbitante di Polly e Max Prod anche ospiti d’eccezione come il cantautore ravennate Vis, i rapper Lord Assen, Brain (Fuoco negli occhi) e Tesuan (Mr Hellink). E ancora, nell’universo creato sull’asse Ravenna-Trento, c’è spazio anche per lui, l’asteroide alfa che ha dato il là al sotto-genere dell’hiphop che oggi non si può non definire di matrice “Anticon”: dalla Bay Area, il solo ed unico Sole, ispirato autore di una strofa perfetta in “Still Alive”, il terzo pezzo del disco.

Tra isole spaziali, notti d’oro, spiagge industriali, tachicardie e ballate del petrolchimico, non basterebbero “giorni di 100 ore” per descrivere le galassie sonore racchiuse nella “città che verrà distrutta domani”.



Max Prod & Polly aprono le porte della loro base spaziale. Si può scegliere se salirci percorrendo uno ad uno i gradini digitali (il primo si chiama “L’Isola” ed è già disponibile su www.occhidiastronauti.com) oppure richiedere il digipack ed entrare fisicamente nell’astronave. In ogni caso non dimenticarsi di indossare cuffie, casco e tuta spaziale.
Il viaggio comincia. Ascoltalo: http://www.occhidiastronauti.com/post/22897003565/lacitta

martedì 10 aprile 2012

Di rientro

Appena rientrato dal viaggio annuale negli States, più di altre volte mi chiedo quanto ci sia di vero e quanto ci sia finto in ciò che ho visto: dai rapporti sociali ai siti "storici", dalle dinamiche di gruppo all'integrazione, passando dal razzismo ai luoghi di aggregazione. E ancora campus, cibo, stadi, giardini, dialoghi. Ogni dettaglio sembra studiato ad arte per uno show di cui forse non comprendo pienamente le dimensioni, le proporzioni, i pesi. Di vero c'è che sono gli unici americani che abbiamo, per citare un noto americanofilo sportivo, e bisogna decidere in che misura prendere e in quale lasciare. Un immenso gioco in cui si confondono verità e finzione. In cui credo nessuno abbia ben capito ciò che è costruito e ciò che è veritiero. Tornerò sull'argomento. Luke

sabato 10 marzo 2012

Saluto a Moebius

Oggi all’età di 73 anni è morto uno degli artisti più importanti del nostro secolo, il francese Jan Giraud Moebius. Personalmente ne ho seguito le gesta sia come fumettista (indimeticabile il suo Silver Surfer Parabola o L’Incal o Il garage Ermetico) sia come sceneggiatore e costumista (Il quinto Elemento, Alien per citare i più famosi). Il suo stile era poetico, surrealista quasi quanto quello di Dalì, tanto che all’ormai lontano esame di maturità portai una tesina che confrontava, allora molto ingenuamente credo, lo stile sognante di Salvador con quello di Giraud. Linee dolci, morbide, capaci di avvolgere il lettore e di abbacinarlo portandolo in mondi di fantascienza così ameni da risultare quasi familiari per converso. Un artista che mi porterò sempre nel vuore. Il Salvador Dalì del fumetto. Rest in Peace, ermeticamente.

mercoledì 7 marzo 2012

Infinite Jest – lo scherzo infinito di Wallace

Oggi mi sento pienamente svuotato. Un ossimoro umano. Mi sento privato di una parte di me, del simbionte con cui ho con-vissuto, che ha viaggiato e dormito al mio fianco per quasi 3 mesi, che ogni mattina mi guardava dandomi un appuntamento serale tra le sue pagine. Ho iniziato a leggere le 1300 pagine che compongono Infinte Jest di David Foster Wallace il 9 dicembre 2011 e l’ho terminato oggi, 6 febbraio 2012. Tre mesi sono un tempo considerevole da trascorrere assieme ad un’unica opera, tanto quanto basta per creare una dipendenza da lettura, proprio come David Foster sapeva che sarebbe stato a chi avesse avvicinato il suo romanzo (anche qui sta la genialità del libro). E’ una lettura potente, intossicante, in grado di diventare essa stessa lo scherzo infinito del titolo non foss’altro per la sua struttura circolare: un libro che parte con un flashforward e termina con un flashback, un loop continuo di letteratura che sfonda i limiti dei generi, che apre porte su molti mondi, che dà voce agli sguardi obliqui. Infinite Jest è una summa enciclopedica di generi e di stili. E’ romanzo distopico, fantascientifico, storico, è saggio sportivo, sociologico e filosofico. E’ il racconto dei nostri tempi, delle tante voci che oggi possono raccontare il mondo dandone la propria personale visione. E’ un romanzo coralmente umano. Eppure è retto da un plot scarno, essenziale e riassumibile molto velocemente. Perchè David Foster Wallace non necessità di plot complicati. Al contrario è la sua capacità descrittiva, la sua totale ossessione per il dettaglio trascurabile (oltre 200 pagine sono note dell’autore) a rendere complesso e stratificato un canovaccio che parla di dipendenza da droghe, talento, sogno americano, prevaricazione, sesso, affetti, televisione, socialità, fobie, tennis. Che narra delle possibili evoluzioni delle tencologie (è stato scritto nel 1996 ma noi che lo leggiamo oggi abbiamo già vissuto ciò che Wallace anticipava su questo argomento), di tempo sponsorizzato, di infiniti modi per alienarsi da se stessi e dagli altri. Infinite Jest è un’opera unica nel suo genere che potrei avvicinare solo a Canti del Caos di Moresco per la sua capacità di interpretare l’umanità come universo e di dare voce ad ogni piccola sfacettatura umana. In pratica contiene veramente tutto ciò di cui avreste sempre voluto leggere. O almeno questa è la sensazione. Per questo terminarlo lascia un senso di vuoto. Oltre al fatto che la sua interpretazione completa e compiuta non sembrerebbe essere raggiungibile. E’ inoltre una lettura estremamente (meta) fisica. La pesantezza stessa del libro in termini gi grammi impone una certa presenza e forza nell’affrontare la lettura. Le parole sono piccole, le pagine sottili: richiedono uno sforzo consapevole. Eppure è tutto così bello, così epico. Non è un libro che può in assoluto essere definito bello (non nella sua totalità, non in ogni sua riga), ma certamente può e deve essere definito un capolavoro assoluto. Contiene pagine di una lucidità assoluta in grado di analiizare la nostra realtà, i rapporti umani, le nostre sincrasie. A queste si alternano pagine che volutamente suscitano inedia e tedio profondo. Pagine fisicamente insopportabili. Eppure queste sono alla fine le più intossicanti. Quelle da cui è impossibile staccarti perchè una loro dose quotidiana (di 10/20 pagine) permetterà di uscire dal vortice dell’incomprensione per lanciarti nelle braccia del prossimo personaggio che permetterà di uscire dal loop introducendo la sua storia. La lettura a volte è imposta dal voler fuggire da momenti di assoluto delirio descrittivo Wallaciano (che dimostra profonda conoscienza tecnica di materie quali biologia, chimica, medicina) per sfondare in altri più tranquilli e comici, o in altri ancora maggiormente legati al plot centrale (che vede l’evolversi parallelo delle vite di tossicodipendenti in cura presso la casa di recupero Ennet House e quelle dei talentuosi giocatori di Tennis del College ETA, mentre sullo sfondo imperversa la guerra civile tra USA e Canada ed un nastro video chiamato Inifinite Jest che crea dipendenza e uccide chi lo guarda annullandone i pensieri, minaccia di far crollare le fondamenta della società). Non c’è genere letterario o accezione alla scrittura che Wallace non abbia toccato con questo suo romanzo di indicibile importanza, originando una lettura che avrebbe, almeno per chi scrive, potuto proseguire all’infinito. Proprio come il video-nastro “protagonista” del libro. Uno scherzo infinto, un romanzo circolare pieno di innovazioni, intuizioni e verità. Non sarà facile disintossicarsene e leggere ancora qualcosa di simile, di così complicato e piacevole allo stesso tempo. Non sarà facile trovarne effettivamente un senso compiuto. Non sarà facile incontrare un’altro David Foster Wallace nella nostra breve vita. RIP. “Il talento coincide con l’aspettativa che suscita, o sei alla sua altezza o quello ti sventola un fazzoletto e ti abbandona per sempre. Usalo o perdilo.” – David F. Wallace, Infinite Jest Luca

domenica 4 marzo 2012

Momenti da fermare

Amici di ieri, di oggi, di domani. L'atmosfera surreale di Bologna che piange Lucio Dalla, le campagne Ravennati nel quale perdersi, le sonorità New Yorkesy degli Shabazz Palaces, i suoni di Macs e del suo nuovo progetto Occhi di Astronauti. I sapori della Romagna e quelli della nostalgia. Un week-end magico fatto di momenti indimenticabili. 03/04-03-2012- 9 anni dopo il concerto di RZA all'ormai scomparso Link. Momenti per cui vale la pena di vivere.

venerdì 3 febbraio 2012

From New Zeland with love: l’ondata reggae-soul-dub che fa bene alla musica.

Di recente mi sono concentrato sulla provenienza geografica di alcuni dei musicisti che più mi hanno dato in termini di emozioni e stimoli in questi ultimi 2/3 anni. Ne è emersa una mappa insolita, quantomeno se paragonata a quella che idealmente avrei potuto compilare qualche anno fa. Le zone calde (e l'aggettivo non è casuale dato il tipo di musica) risultano quindi posizionate e concentrate sopratutto nell'emisfero australe, in corrispondenza di quella zolla di terra che va sotto il nome di Nuova Zelanda. E' lì dove gli stereotipi cadono, dove la creatività si fa più forte e dove certi tipi di suono possono sprigionarsi senza troppo badare all'evolversi delle scene musicali maggiormente considerate, vedi quella del nord Europa per ciò che riguarda la musica elettronica (e con questo termine comprendo dal dub-step al dub-soul ma anche elettronica in senso stretto e quella zona grigia tra electro djing ed hiphop) e quella americana, sponda brooklyn, per ciò che riguarda il nu-rock contaminato da presenze afro-americane ed echi soul. Ecco in Nuova Zelanda, dove evidentemente non si gioca solo a rugby ma si produce anche dell'ottima musica fondendo folk locale al soul più classico e prendendo ispirazione solo a tratti dal mondo dei club europei e dei loro dj, per poi continuare a tracciare una via propria grazie ad una musica maggiormente suonata, più corale e reggae nello spirito (ma anche ne suono e negli strumenti utilizzati), in Nuova Zelanda dicevo, il suono non si uniforma ma si modella su un genere che, in Europa per esempio, solo gli inglesi (sponda Brighton) Belleruches riescono a proporre. I capostipiti del suono con cui possiamo identificare a tutti gli effetti la Zelanda sono certamente i Fat Freeddy's Drop, un assembramento di 6 musicisti in grado di comporre suite dub di 8 minuti e di esplodere in momenti di assoluta estasi sonora. Gruppo positivo per antonomasia. Stessa positività e grinta, condita da punte introspettive degne del miglior soul afroamericano, anche da parte di Ladi6, regina assoluta del soul neozeolandese che con il suo "the liberation of" ha stregato l'Europa nel 2011 (aprendo anche qualche tappa del tour dei Fat Freddy's). Stesso mood ma un po' più cinematico e sintetico è quello che è in grado di portarci Julien Dyne, anche lui influenzato non poco dai compagni di viaggio Fat di cui ha assimilato l'estetica ed i tempi dilatati del dub. Se Ladi6 ha energia da vendere, non è da meno Selah Sue, altra artista donna con una voce molto simile e un suono altrettanto energico e positivo. Reggamuffin d'autrice. Sarà un caso poi (ci credete sul serio?), ma artiste di sesso femminile in Nuova Zelanda mettono voce ed atteggiamento davanti all'apparenza fisica, proprio come le soulsinger degli anni 60/70 (remembering Wendy Rene) ed in netto contrasto a ciò che accade oggi nei circuiti commerciali Americani ed Europei. Sempre restando in ambito femminile, come non citare Iva Lamkum, voce che nobilità i pezzi più intensi ed incredibilmente funky dei Sola Rosa, altro gruppo che ha fatto impazzire l'Europa nel 2010/11 con una release memorabile: get it togheter. Ma l'elenco di nomi non finisce qui e vedi l'aggiungersi di Electric Wire Hustler, leggermente più europei e meno debitori agli strumenti suonati dal vivo ma altrettanto sul pezzo nel comporre l'estetica musicale neo-zelandese. In breve, non ce n'è, in questo momento è dal continente australiano che provengono le produzioni più interessanti e fresche, quelle che riescono a portare un po' di novità anche nel panorama europeo e americano. Senza nulla togliere alla scena berlinese o a quella inglese, sempre un passo avanti rispetto a tutti, ma in altri ambiti. Nu Soul, Nu Raggae, NU ZELAND. Chi l'avrebbe mai detto? Luke